La Dott.ssa Giovinazzo ci parla dei DSA

Noemi Giovinazzo è una delle figure cliniche con cui Ohana collabora. Marta Mariani l’ha intervistata per noi. Ecco qui le sue interessanti risposte!

Noemi, tu ti occupi di valutazioni e curi quindi una parte importante, che può avere un valore predittivo sui Disturbi Specifici di Apprendimento. Le famiglie con cui entri in contatto quanto sono al corrente di questo tipo di disturbi?

Negli ultimi dieci anni l’attenzione ai Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) è aumentata. Figure come i pediatri, gli insegnanti e le stesse famiglie sono diventate più sensibili nell’individuare i fattori di rischio o i segnali di difficoltà scolastiche. Alcune famiglie vengono spontaneamente a fare richiesta di approfondimenti clinici, perché ravvisano una storia di familiarità.

«Mio figlio fa i miei stessi errori»!

Spesso durante la raccolta dei dati anamnestici i genitori riportano che il figlio compie gli stessi errori che facevano loro da piccoli, o ha un profilo di apprendimento simile a quello di un parente di primo grado con diagnosi di DSA. Altre volte osservano prestazioni lente e poco accurate durante lo svolgimento dei compiti a casa. Alcune famiglie invece arrivano da noi su segnalazione della scuola o del pediatra e non sanno cosa aspettarsi dalla valutazione.

Durante il colloquio iniziale e al momento della restituzione non è infrequente osservare una certa quota di preoccupazione nei genitori.

Questo è certamente comprensibile, perché una diagnosi di DSA ha un impatto sul soggetto, sia a livello di successi scolastici, sia a livello emotivo o motivazionale. A questo si accompagna spesso l’incredulità: i genitori non riescono a capire come cadute di questo tipo si evidenzino in un bambino ritenuto arguto in tante altre attività o situazioni della vita di tutti i giorni. Il concetto che rimando sempre ai genitori è che il bambino con una diagnosi di DSA è un bambino intelligente, il quale, pur avendo delle difficoltà selettive ad automatizzare alcuni processi specifici come quelli della lettura, della scrittura o del calcolo, ha un modo peculiare e diverso dall’ordinario di sfruttare le sue abilità e le sue potenzialità.

Nel nostro ultimo colloquio mi hai parlato di alcuni tipi di test di cui tu fai uso. Come funzionano? Che attendibilità hanno?

Per poter fare diagnosi di DSA è necessario considerare alcuni parametri, tra i quali l’assenza di ritardo mentale e una discrepanza tra le prestazioni scolastiche osservate e quelle attese sulla base dell’età e del quoziente intellettivo.

Una caratteristica poi che spesso si presenta nei soggetti con DSA sono le difficoltà a carico della memoria di lavoro e dell’attenzione.

I test che utilizzo per la valutazione del funzionamento intellettivo e delle competenze neuropsicologiche (memoria, attenzione e problem-solving) sono tra i test più comunemente usati in ambito clinico. Alcuni di questi sono stati messi a punto in Italia, altri hanno ricevuto un attento lavoro di revisione e di taratura sul territorio nazionale, testando un ampio campione di soggetti italiani da cui si sono poi ricavati i dati normativi con cui vengono confrontate le prestazioni dei bambini sottoposti a valutazione. I risultati possono essere letti quindi come adeguati o deficitari sulla base dello scarto dal punteggio medio ottenuto dalla popolazione testata.

Dei test ci si può fidare!

Tutti i test hanno buona validità e attendibilità e danno informazioni sul funzionamento cognitivo globale del soggetto. La durata della somministrazione della batteria dei test è solitamente di 2 ore e 30 minuti, ripartite in due incontri. Ovviamente, dobbiamo avere una certa flessibilità che tenga conto dei tempi e delle caratteristiche individuali del bambino.

Quali consigli ti sentiresti di dare alle famiglie che volessero sostenere il proprio figlio (o la propria figlia) davanti a disturbi attentivi o a deficit della memoria? E parlando delle «funzioni esecutive», il problem solving si può allenare o esercitare?

Le funzioni cognitive quali attenzione, memoria, ragionamento e problem-solving sono variabili implicate sia nell’apprendimento scolastico sia in una serie di attività comuni e svincolate dal contesto scuola.

Alcune ricerche hanno messo in evidenza come queste abilità possano essere potenziate non soltanto in soggetti in età evolutiva, ma persino in adulti con lesioni cerebrali e in anziani soggetti a decadimento cognitivo.

L’esercizio, infatti, interviene rimodulando le connessioni cerebrali, determinando un’aumentata stimolazione di alcune aree e compensando abilità compromesse. Dopo aver fatto un’attenta valutazione delle aree di forza e di debolezza del soggetto, il professionista può proporre un training a breve o a medio termine, con sessioni della durata di 30/40 minuti, utilizzando schede e programmi computerizzati (sicuramente più motivanti per i bambini).

Il segreto? Tenersi in allenamento giocando!

Un lavoro di continuità può essere svolto anche a casa, mettendo in campo tanta creatività. L’obiettivo deve essere quello di proporre attività e giochi che risultino accattivanti per il bambino, in modo che possa allenarsi in modo ludico.

In quali casi generalmente consigli di ricorrere ad una valutazione privata?

Secondo l’articolo 3 della legge 170/2010 la diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento deve essere effettuata nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, quindi nelle Asl, nelle Strutture Ospedaliere e Universitarie o negli IRCSS. Dal momento, però, che una diagnosi tempestiva è necessaria per consentire allo studente con difficoltà di apprendimento di poter usufruire dei benefici che la stessa legge garantisce e dal momento che spesso i tempi di attesa nei servizi pubblici superano i 6 mesi, ci si può rivolgere a specialisti o strutture accreditate che abbiano documentata esperienza nell’attività diagnostica dei DSA.

La valutazione eseguita da un professionista privato non accreditato, anche quando non consente il rilascio di una certificazione ritenuta legalmente valida, permette tuttavia di definire in modo accurato il profilo di funzionamento del bambino/ragazzo.

Esso evidenzia i suoi punti di forza e di debolezza sia rispetto alle abilità scolastiche, sia rispetto alle competenze neuropsicologiche. La relazione finale che viene fornita ai genitori contiene quindi preziose indicazioni sul modo in cui si può lavorare sia a scuola sia a casa, in termini di attività di recupero e di potenziamento.

Emanuela Quagliozzi

La Dott.ssa Quagliozzi risponde!

La Dott.ssa Emanuela Quagliozzi è una figura clinica di Ohana. Come psicologa e psicoterapeuta si occupa di bambini e adolescenti. Marta Mariani l’ha intervistata perché le famiglie di Ohana la conoscessero meglio. Ecco le sue parole!

Emanuela, in qualità di psicologa e psicoterapeuta ti occupi principalmente di adolescenti e bambini, in che cosa consiste il tuo aiuto?

Il mio lavoro consiste nell’aiutarli a conoscersi e nell’aumentare il loro livello di consapevolezza di sé. A volte per riuscire a produrre una trasformazione, un cambiamento, o per superare momenti di difficoltà, questo tipo di lavoro è indispensabile.

Promuovere l’autoconsapevolezza emotiva significa sviluppare una maggiore e più cosciente conoscenza dei propri stati d’animo e dei propri pensieri nel momento in cui si presentano.

In questo modo si può riuscire a monitorarli ed a reagire nella maniera più adeguata. Parallelamente lavoro anche sull’incremento di abilità sociali, comunicative e motivazionali. Queste abilità, insieme alla storia personale di ciascun utente, permettono la creazione dell’immagine che il bambino o il ragazzo ha di sé e della propria autostima.

I bambini e gli adolescenti sono lo specchio delle famiglie

Per me è fondamentale lavorare non solo con i bambini e con gli adolescenti ma anche con tutta la rete di relazioni in cui questi vivono. Talvolta, infatti, per produrre un cambiamento, soprattutto nei bambini più piccoli, è necessario effettuare un lavoro volto quasi esclusivamente sui genitori, attraverso degli incontri di Parent Training. In queste occasioni, io e la mia squadra di figure cliniche forniamo un valido supporto alle strategie cognitive e comportamentali delle figure genitoriali. È il nostro metodo per intervenire sul contesto del ragazzo. Questo tipo di lavoro funziona e produce cambiamenti anche nel bambino.

Nel nostro primo colloquio hai parlato di un grande “mostro nero” che adolescenti e preadolescenti intendono superare con il tuo supporto: l’ansia. Cos’è l’ansia? Come si manifesta? Come ci si lavora?

Non la chiamerei “mostro nero”. In realtà l’ansia è solo un’emozione e, come tutte le altre emozioni che proviamo, ha un’importante funzione nella nostra vita. Le emozioni infatti hanno una funzione adattiva e si sono evolute insieme all’uomo fornendo un importante contributo alla sua rapida evoluzione.

Cos’è l’ansia?

In generale, questa emozione indica un complesso di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche che si manifestano in seguito ad uno stimolo che avvia aspettative negative. L’ansia aumenta quando la persona valuta il pericolo come imminente e grave, mentre diminuisce quando il soggetto sente di poter gestire la situazione.

Quando ci troviamo davanti ad un pericolo, siamo “programmati” geneticamente a reagire con una risposta comportamentale che ha dei correlati fisiologici.

La sudorazione aumenta, così come il battito cardiaco. Possiamo tremare, avvertire una certa tensione muscolare, avere le vertigini, respirare a fatica. In realtà, queste risposte sono strettamente funzionali e ci servono ad affrontare la minaccia (l’elemento che ci “attacca”), reagendo con l’allontanamento (“fuga”). Se l’ansia rimane compresa entro un certo range di limiti, è accettabile e sana. Essa svolge una funzione, appunto, adattiva.

Quando l’ansia si innesca in situazioni non così pericolose…

Al contrario, quando l’ansia si innesca anche in altri contesti, in cui la nostra incolumità fisica non è affatto messa a repentaglio, questo meccanismo fisiologico va indagato e osservato più da vicino. Spesso, infatti, le reazioni d’ansia non si scatenano soltanto davanti ad una situazione minacciosa, ma anche in tantissime situazioni ordinarie, come un esame, un’interrogazione, una prestazione scolastica, sportiva o lavorativa. Così, la reazione d’ansia diventa disfunzionale, cioè patologica, perché il livello d’intensità raggiunto dall’individuo non è proporzionato all’entità della situazione.

Il lavoro in psicoterapia consiste appunto nell’imparare a riconoscere a livello emotivo e cognitivo cosa avviene nelle situazioni temute.

Capire quello che succede e riconoscerlo rappresenta il primo passo. Successivamente, attraverso tecniche cognitive, comportamentali e di rilassamento, si lavora per trovare strategie adeguate che permettano di riuscire ad affrontare tali situazioni, attraverso una corretta gestione dell’emozione.

Dal tuo punto di vista clinico e professionale, perché la terapia psicologica è importante?

È vero che tutti noi ci conosciamo e abbiamo una buona consapevolezza di noi stessi, ma può capitare che ci manchi una conoscenza emotiva dei nostri desideri più profondi e soprattutto delle nostre scelte. Questo riguarda spesso bambini ed adolescenti che sono in fase di crescita e di scoperta di se stessi. A volte, la mancata conoscenza di sé può produrre delle difficoltà personali e relazionali, o momenti di sofferenza emotiva.


Iniziare una psicoterapia è una scelta orientata alla salute che permette di conoscersi meglio, individuare e rafforzare le proprie risorse, affrontare in modo più opportuno i momenti di difficoltà, di tensione.

Il cambiamento è possibile attraverso la creazione di una relazione improntata sulla fiducia, sull’ascolto, sulla sospensione del giudizio e sull’impegno reciproco. In questa preziosa relazione, il paziente e il terapeuta collaborano per raggiungere insieme degli obiettivi condivisi.

Ricordi il caso di qualche ragazzo o di qualche ragazza che, grazie alla terapia, ha potuto trasformare in meglio la sua qualità di vita? Ti va di parlarcene?

Ho lavorato ad esempio con una ragazza che aveva difficoltà all’interno dell’ambiente scolastico e queste difficoltà l’avevano portata a chiudersi in sé. Viveva dei rapporti difficili con i pari e frequentava poco la scuola. Abbiamo lavorato molto insieme. Cercavamo di capire quali emozioni e quali pensieri si innescavano nelle situazioni temute. Modificavamo, così, con gradualità, i comportamenti di evitamento, o comunque quelle reazioni poco funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi. Abbiamo quindi ottenuto che la ragazza si rafforzasse e fronteggiasse tali situazioni. Parallelamente, ho fornito supporto e strategie anche alla coppia genitoriale che si mostrava molto preoccupata della situazione, lavorando quindi anche sulle relazioni tra i membri della famiglia.

emozioni bambina

Cosa diresti ai tanti genitori scettici che disapprovano l’idea di mandare i loro figli da un buon terapeuta?

Decidere di chiedere aiuto, per se stessi o per i propri figli, non è mai, per nessuno, una scelta facile. Spesso ci si sente deboli, arrabbiati, in colpa o privi di risorse personali. In realtà, se sentiamo di non farcela da soli, chiedere aiuto è un atto di forza, un modo concreto per risolvere una problematica, affrontare una situazione o un momento di difficoltà.
Potrebbe essere presente ancora un pregiudizio che considera la persona che soffre a livello psicologico come inadeguata.

A dire la verità, lo scopo principale della psicologia è la promozione del benessere e del cambiamento.


Per quanto concerne la parte pratica, il primo colloquio avviene con i genitori, o con chi si prende cura del bambino, o del ragazzo. Richiedendo l’autorizzazione di entrambi, valutiamo le motivazioni per le quali è stato contattato il professionista. Consideriamo poi se vi sia la reale necessità di un percorso di psicoterapia. Si decide insieme, infine, se intraprendere un percorso o meno. In ultimo, si chiariscono le modalità di accesso al servizio: forniamo cioè tutte le informazioni del lavoro con il minore.

Vania Ricci

La Dott.ssa Vania Ricci si racconta

La dottoressa Vania Ricci collabora con Ohana in qualità di ortottista. Marta Mariani l’ha intervistata per noi e le ha dato modo di illustrarci meglio di che cosa si occupa.

Vania Ricci, tu sei una ortottista esperta nei disturbi motori degli occhi. Potresti parlarci più diffusamente del tuo lavoro e di ciò di cui ti occupi?

Certo! Io, sostanzialmente, accompagno i genitori e i loro bambini in un percorso che mira ad un corretto sviluppo delle abilità visive. Tali abilità sono molteplici.

Il canale visivo, infatti, porta le informazioni al cervello e contribuisce ad uno sviluppo psicomotorio funzionale ed armonico.

La visita ortottica è fondamentale soprattutto nei bambini, come indagine preventiva per identificare alterazioni motorie e sensoriali del sistema visivo. Può essere utile anche in età adulta, per individuare disturbi che inducono la visione doppia, alterazioni del campo visivo e anomalie posturali.

L’ortottista lavora sempre in sinergia con tutte le figure che ruotano intorno al bambino. Come clinico, è a stretto contatto con l’oculista, che ha un’esperienza mirata alla fascia d’età evolutiva, ed è in grado di prevenire, valutare e riabilitare i disturbi che riducono o impediscono la visione binoculare. Tra questi disturbi ci sono, ad esempio, l’ambliopia (il cosiddetto «occhio pigro») e lo strabismo.

Quindi io mi occupo anche di prevenire, valutare e riabilitare le disabilità visive gravi, cioè «l’ipovisione», sia degli adulti che dei bambini.

Le mie consulenze hanno lo scopo di migliorare le capacità motorie di percezione visiva in quei pazienti dislessici, affetti da disturbi di apprendimento. Lo scopo è quello di aiutarli nella lettura e nella scrittura, migliorando il loro comfort visivo. Va detto poi, che il mio lavoro può giovare a chi passa molte ore al computer o su dispositivi digitali. Queste persone, di un numero ormai sempre crescente, possono talvolta presentare la cosiddetta «astenopia», ovvero la sindrome da affaticamento visivo.

Tra le altre cose, l’ortottista segue alcuni sportivi che intendono potenziare in modo mirato le proprie capacità visive. Si tratta di un’occasione preziosa, che gli atleti spesso colgono per migliorare le loro prestazioni.

In linea generale io collaboro con altre figure mediche per stabilire i percorsi riabilitativi in pazienti neurologici o che hanno patito dei traumi cranici. Per le scuole, come per le associazioni (non solo sportive), organizzo degli screening preziosi, a scopo preventivo e terapeutico. Lavoro quindi al fianco del medico oculista e la nostra sinergia serve alla corretta valutazione di difetti visivi complessi, ma anche alla efficace esecuzione di esami strumentali specifici.

Mi spiegavi poco fa che hai sempre voluto dedicarti professionalmente ai bambini, nonostante la tua esperienza nella chirurgia refrattiva. In che modo riesci a fare prevenzione e a guidare i bambini ad un sano sviluppo psico-somatico e motorio?

Sì, appena uscita dall’università sono stata assunta da un centro di chirurgia refrattiva, facendo anche un’esperienza all’estero, a Londra, avviando o formando del personale. La mia laurea mi ha permesso di effettuare questo percorso perché prevede anche l’assistenza oftalmologica.

Oggi infatti anche in questo campo riesco ad essere utile a chi me lo richiede collaborando con uno dei centri con cui ho lavorato.

I bambini, a dire il vero, sono stati per me lo stimolo principale. È per loro che ho intrapreso il percorso che sto tuttora proseguendo. In privato, a Roma, riuscivo a visitarli collaborando con un oculista e una pediatra. L’oculista con cui lavoravo aveva la lungimiranza di prescrivere la visita ortottica di routine praticamente a tutti.

La visita in sé è persino divertente, ci sono de giochi, delle luci colorate, dei sistemi diagnostici, insomma, che prevedono aspetti ludici ma che per noi sono assolutamente rivelatori.

Noi operatori riusciamo a capire molte cose da un semplice “gioco” come quelli utilizzati in visita. Rileviamo dati essenziali sullo sviluppo visivo e percettivo dei nostri giovani pazienti e ci assicuriamo che le facoltà visive stiano progredendo in maniera corretta. Altrimenti, si può intervenire tempestivamente, che per me vuol dire “prima dei tre anni di età”.

Come avviene lo screening di disturbi visivi di bambini molto piccoli? Voi ortottisti, tu mi dici, avete dei giochi, degli strumenti “ludici” per le valutazioni e le diagnosi?

Sì. Chiaramente. È importantissimo per noi valutare i riflessi della luce negli occhi, la coordinazione occhio-mano, occludere un occhio e poi l’altro e osservare il bambino come reagisce. Osserviamo molto attentamente il bambino nello spazio, vediamo se gattona, come si orienta. Per fare un gioco di parole, direi che abbiamo ormai affinato un “occhio clinico” per questi dettagli parlanti.

«Sono molto attenta alla prevenzione!»

È da più di un anno che investo sulla prevenzione. Utilizzo uno strumento di ultima generazione, direi, che per mezzo di una semplice “foto” dà molte indicazioni. Da queste informazioni si ricava una pista diagnostica che noi seguiamo e approfondiamo con una successiva visita, sia oculistica, sia ortottica. È un mezzo importante per indagare sulla refrazione di un bambino anche di 4 mesi di vita! Incredibile, no?

C’è qualche caso che, nella tua carriera di clinico, ti è rimasto impresso? Ti va di raccontarci un po’ della tua esperienza?

Mentirei se ti dicessi il contrario.

Ogni bambino ha fatto parte di un’esperienza che mi ha dato la possibilità di aiutarne altri.

Ti racconto volentieri della piccola C. perché è il caso che racconta come i genitori alcune volte siano davvero impossibilitati ad accorgersi dei segnali visivi dei figli.

Lei aveva 4 anni, era una bimba mite, timida e poco attiva, così la descriveva la mamma. Da poco erano stati in un parco divertimenti molto famoso, ma nonostante le numerose attrazioni, la bimba aveva dormito quasi sempre.

L’incredibile scoperta!

In visita, metto la bambina davanti allo strumento che rileva il difetto di vista in modo computerizzato. Vedo un valore difficile da credere e penso ad un falso positivo, dovuto all’accomodazione messa in atto dai bambini. Ripeto l’esame ma il valore rimane invariato, lo ripeto di nuovo ma il risultato è lo stesso.

Lo strumento di mostrava una miopia di circa 10 diottrie in entrambi gli occhi.

Ho ancora stampata nella mente la sorpresa di C. quando con le lenti correttive trova il mondo intorno radicalmente cambiato! Ricordo le lacrime della mamma. Soprattutto, ricordo la gioia di vedere la bimba sbocciare e tornare per la seconda volta al parco acquatico, divertendosi come non mai con i suoi nuovi occhiali, che sono stati una porta verso il mondo e verso la realtà.

La frase di C. pochi giorni dopo la visita credo che non la dimenticherò mai. Disse al genitore: «mamma, le farfalle sono colorate!».

farfalle colorate

Credo che questo ricordo mi rimarrà per sempre scolpito nel cuore. Oggi C. è una donna bellissima e sono felice di averla aiutata a sbocciare! Quindi, capisci bene, ora, perché cerco di visitare i bambini ben prima dei 4 anni.

Alla luce della tua esperienza, c’è qualche consiglio che daresti ai genitori di figli con disturbi di apprendimento?

Mi confronto costantemente con il problema dei disturbi di apprendimento, non solo come professionista. Quello che mi sento di dire è che ci vuole molta pazienza. Ci vuole il desiderio di comprendere pienamente, la volontà di far sentire compresi i nostri figli. Per noi genitori, questa è la missione più grande, perché la loro autostima è spesso fortemente minata.

Da terapista, posso assicurare ai genitori che alcuni bambini con disturbi dell’apprendimento hanno una percezione visiva diversa.

Compiono dei movimenti oculari non del tutto coordinati, che comportano indubbie difficoltà nella lettura e nella scrittura. Si tratta di problemi che causano un grave dispendio energetico in attività “scolastiche” fondamentali. Tutto ciò genera necessariamente una certa stanchezza. La stanchezza è davvero uno dei sintomi più frequenti.

Come figura clinica, io metto a disposizione la mia competenza e la mia professionalità per individuare il problema e adottare soluzioni idonee ai singoli casi. Per questo, mi sento di dire ai genitori di rivolgersi a figure specializzate, perché così potranno aiutare davvero i loro figli.